L’ISOLA DEI MORTI di Valerio Massimo Manfredi
Il breve romanzo narra del ritrovamento del
relitto di una nave risalente al XIV secolo, affondata nelle acque di San Marco
in Boccalama, un’isola oggi sommersa, usata come luogo di sepoltura dei morti
di peste nel 1348 a Venezia.
Le operazioni per recuperare l’imbarcazione, finanziate dalla
Fondazione Foster, una ricca struttura culturale di una grossa azienda di
telecomunicazioni, la Intercom, con sede
a Londra, sono affidate da un team di esperti, tra i quali Lucio Masera,
topografo.
Dopo aver prosciugato l’acqua, scavato
nel fango e nella melma della laguna per far emergere lo scafo del veliero, gli
studiosi scoprono che è stato affondato deliberatamente. Tra i resti, sono rinvenuti un teschio e un frammento di
legno dello scafo che vengono subito
affidati rispettivamente all’Istituto di antropologia dell’Università e al
laboratorio dell’Istituto Kemp, per essere analizzati.
Nell’osservare il relitto, costruito con
notevole abilità dai capaci ingegneri
navali veneziani dell’Arsenale, il più grande e segretissimo cantiere navale
della Serenissima, Masera cita alcuni
versi dell’Inferno: “Quale ne l’arzana de’ Viniziani bolle l’inverno la tenace
pece a rimpalmare i legni lor non sani”
(Pag. 7).
A condividere la scoperta, l’amico,
Rocco Barrese, filologo romanzo, linguista poliglotta, capace di distinguere le
sfumature semantiche e fonetiche di lingue e dialetti e studioso delle fasi compositive
della Divina Commedia, le cui ipotesi indicano l’instancabile lavoro di Dante
per rendere perfetta la sua opera fino alla fine dei suoi giorni.
Un amico e collega, Stefano Marras
scopre che qualcuno ha sottratto un reperto del galeone e identifica il collega
britannico Liddel-Scott come possibile colpevole. Per sbaglio ha ascoltato una
telefonata tra l’inglese e Sir Foster, presidente dell’Intercom a proposito di
una pergamena “Did you get the box with the parchment back from the
laboratory?” e “E’ incredibile che ci fosse ancora qualcosa di leggibile dopo tanti
secoli di immersione in acqua salata” (Pag. 16). Scatta subito l’allarme e l’équipe
italiana, con l’aiuto di Alberto Fossa e di Agostino Fanti, esperto in
tecnologie avanzate, si mettono sulle tracce dei due inglesi, per scoprire il
contenuto del manoscritto.
Agostino, riesce a registrare una
conversazione in dialetto veneto, in cui viene rivelato, anche se non
interamente, il contenuto del manoscritto.
Si tratta del furto della Divina
Commedia autografa, ad opera di un misterioso ladro che la sottrae a Dante
durante un soggiorno a Venezia. Molte sono le congetture che vengono fatte
attorno al misterioso furto: Barrese trova la spiegazione nel contenuto di una
epistola inviata da Dante a Cangrande della Scala, in cui l’autore afferma di
aver fatto realmente il viaggio attraverso i tre Regni, oggetto della sua opera
“Ce n’era più che a sufficienza per arrostirlo, se il Papa fosse riuscito a
mettergli le mani addosso” (Pag. 59).
Il misterioso ladro fa una copia del
manoscritto e la invia al figlio di Dante, Pietro Alighieri “Sei mesi dopo
giunse al figlio che grandemente se ne rallegrò” (Pag. 59) e non rivelò mai a
nessuno di essere in possesso di una copia e non dell’originale.
La copia autografa viene nascosta nel
cadavere di un morto di peste e trasportata all’isola dei morti, da un incaricato (ex malato di peste) che lo seppellisce insieme ad altre centinaia
di corpi. I membri dell’equipaggio, dipendenti del mandante, praticano dei fori
nella chiglia della nave, rinchiudono “il monatto” nella stiva, dopo averlo
avvelenato e “Il poveretto fa quello che
può per trasmettere ai posteri la verità. Scrive queste poche righe su un
foglio di pergamena che viene ritrovato
sette secoli dopo” ( Pag.61) da
Liddel-Scott e sottratto.
Al gruppo di esperti non rimane che
rinvenire l’opera autografa di Dante, nascosta nella laguna. Ma dove? E’ un
graffito lasciato sul frammento di legno dello scafo della nave ad indicare
l’esatta collocazione della Divina Commedia. Arrivano sul luogo indicato ma,
con disappunto, si accorgono di essere stati preceduti dagli inglesi.
Rinvengono però un frammento del manoscritto “e appena saremo in grado di
leggere queste lettere, tu potrai dire se abbiamo in mano un lembo di paradiso,
o un pezzo d’inferno” (Pag,76).
E’ il primo romanzo che leggo di
Manfredi e mi è piaciuta la storia, la suspense creata dagli avvenimenti e la
tipologia dei personaggi e soprattutto la descrizione della città.
L’estate scorsa sono stata a Venezia per
la prima volta e, leggendo queste righe, ho rivissuto l’esperienza di camminare
tra le calli deserte a tarda sera, di navigare sulla laguna con decine di
persone accalcate sui vaporetti durante il giorno, ho risentito l’odore
salmastro e il rumore del mare.
Ho letto il racconto tutto d’un fiato,
solo il finale mi ha un po’ delusa, mi aspettavo che i protagonisti riuscissero
a svelare il mistero dell’opera di Dante o che accadesse qualcosa di meno
banale dell’essere preceduti dal team inglese. Comunque per me, Manfredi è
stata una rivelazione, un autore che sa far apprezzare la Storia.
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