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lunedì 12 marzo 2012

argomenti da Repubblica@scuola

So che c'è in voi il desiderio nascosto(MOLTO nascosto) di scrivere sugli argomenti del mese,e ve li propongo:

Sei in: Repubblica@Scuola Studente reporter
CORPO E LINEA
La vita con il corpo
Racconta una storia
Una ballerina della Scala denuncia che il teatro incita all’anoressia. Tutti riceviamo condizionamenti che incidono sul rapporto con il nostro corpo. Scrivi una storia per narrare la natura di questi condizionamentidi PAOLO ZONCA
MILANO - Aveva denunciato, prima nel libro La verità, vi prego, sulla danza scritto nel 2010, poi in un’intervista al quotidiano inglese Observer, i problemi legati ai disturbi alimentari - anoressia e bulimia - nel mondo del balletto, in particolare tra le ragazze, senza risparmiare critiche alla Scala, dove ha frequentato la scuola entrando poi nel Corpo di ballo e diventando solista.
Ora arriva il drastico provvedimento: il teatro milanese ha licenziato Mariafrancesca Garritano, 33 annni, calabrese arrivata a Milano a 16 anni per inseguire il suo sogno. Decisione necessaria, si legge in una laconica nota della Scala, in seguito alle interviste e dichiarazioni pubbliche da lei rilasciate ripetutamente in un ampio arco di tempo, nelle quali si è concretizzata una lesione dell’ immagine del teatro e della sua scuola di ballo, nonché la violazione dei doveri fondamentali che legano un dipendente al suo datore di lavoro, facendo venir meno il necessario rapporto fiduciario cheè alla base di tale legame».
Si tratta di giusta causa, insomma. La Garritano, che dice di aver saputo dieci giorni fa del licenziamento, annuncia che la questione «è in mano ai suoi avvocati» e c’è da scommettere che farà ricorso contro il provvedimento. Questa l’ ufficialità, anche se dal teatro trapela di più. Nel libro la Garritano era molto chiara nel mettere sotto accusa la Scala di una quindicina di anni fa, quando frequentava la scuola di ballo e (raccontava), l’istruttore la chiamava “mozzarella”, la costringeva a mangiare solo mele e yogurt e a scendere a 43 chili di peso.
Nelle interviste più recenti, invece, le sue denunce sono meno circostanziate e, dunque, colpiscono la Scala in modo generico. Anche quella attuale. Oltretutto, si fa notare, non risponde a realtà che una ballerina su cinque sia anoressica e che sette su dieci non abbiano le mestruazioni per colpa delle diete punitive. Tanto è vero che negli ultimi mesi ben nove danzatrici sono entrate in maternità o hanno avuto bambini felicemente.
La ballerina licenziata risponde alle domande solo per mail. «Le mie parole non sono state capite e sono amareggiata, perché le mie intenzioni non hanno mai avuto intenti scandalistici» sostiene «Ho sempre parlato di un fenomeno diffuso nella danza in generale». È pentita delle sue “sparate” o è pronta a ribadire tutto? «Io penso che il problema dei disturbi alimentari sia da tenere in considerazione perché ha mille sfaccettature, bisogna informare e prendere coscienza di questo in tutti gli ambiti dove può essere un fenomeno diffuso. Proprio perché è una delle principali cause di morte tra le adolescenti dai 12 ai 25 anni, dopo gli incidenti stradali».
Intanto la reazione tra i colleghi è piuttosto tiepida. I delegati di Uil e Cisl annunciano che nei prossimi giorni invieranno una lettera al teatro per protestare conto un «provvedimento eccessivo», ma l’impressione è che nemmeno i sindacati siano disposti a difenderla. Su Facebook un gruppo di sostenitori ha creato un gruppo per esprimere solidarietà. Ma, da qualcuno del corpo di ballo, parte un siluro: «se la sarà presa con le anoressiche perché lei, invece, è un po’ più in carne».
Un futuro senza frontiere, scrivi una storia e vinci
Giovani inventori
la fabbrica in camera
Dalla cultura digitale sta nascendo una nuova generazione di creativi. E tu cosa sogni di inventare? Uno sparacaramelle o un pillola per diventare immortali (almeno per un po’)? Scrivi una storiadi RICCARDO LUNA
LA NUOVA rivoluzione industriale che bussa alle porte dell’Italia si è annunciata con un colpo di cannone. Dentro la Casa Bianca, accanto allo Studio Ovale del Presidente. È accaduto qualche giorno fa. Barack Obama aveva invitato i giovani talenti che avevano vinto gare scientifiche di ogni tipo. Tra questi un ragazzino di 14 anni, Joey Hudy, occhialoni grossi da miope a incorniciare un viso minuto. Joey viene da Phoenix, Arizona, ed è un “maker”, ovvero uno che costruisce oggetti: anzi li immagina, li progetta, li realizza e li vende. Tutto da solo. La sua fabbrica è la sua cameretta. Alla Casa Bianca Joey aveva portato un cannone. Anzi un extreme marshmallow cannon: insomma, uno spara-caramelle. Il presidente quando ha visto questo oggetto lungo e sbilenco dapprima ha sorriso, poi ha voluto provarlo: era la prima volta che qualcuno sparava dentro la Casa Bianca, ha detto, non era sicuro che i servizi segreti avrebbero gradito la cosa. Joey ha caricato. Ha sparato. Tunf. Il marshmallow ha attraversato il salone senza fare danni seguito da decine di occhi. E mentre il Presidente rideva, il ragazzino gli ha dato il suo biglietto da visita: sotto il nome di Joey Hudy, Obama più tardi avrebbe letto una bella frase, una frase che dice quasi tutto di questa generazione che punta a cambiare per sempre il concetto di fabbrica, di lavoro, di mercato. “Do not be bored, do something”, cioé smettetela di annoiarvi, fate qualcosa. Anzi, costruitela questa cosa, oggi si può.
Dicono che questa dei “maker” sarà la nuova rivoluzione industriale. Il primo a intuirlo è stato il direttore del magazine Wired, Chris Anderson, che nel 2010 intitolò un suo saggio, “Gli atomi sono i nuovi bits”: prendeva spunto dal nome di un laboratorio aperto al Mit di Boston qualche anno prima da Neil Gershenfeld, “Center for bits and atoms”, luogo dove produrre quasi-qualsiasi-cosa. “La cultura digitale dopo aver rivoluzionato il mondo dei bit e quindi l’editoria, la musica e i video attraverso Internet, ora sta per trasformare il mondo degli atomi, quindi degli oggetti fisici”, avvertì Anderson che è a sua volta un “maker”, nel senso che ha avviato con molto successo la produzione di droni fatti in casa e la sua neonata azienda di 16 persone fattura tre milioni di dollari l’anno vendendo kit per aeromodellini con videocamera incorporata. Come nella prima rivoluzione industriale fu una macchina, la macchina a vapore, a innescare un cambiamento epocale, anche in questo caso c’è di mezzo una macchina: è la stampante 3D, in pratica è una macchina che “stampa” oggetti come stamperebbe un foglio. Non si tratta di una cosa nuova in assoluto, sono trent’anni che strumenti simili si usano in fabbrica. Ma tutto è cambiato quando nel 2009, in un ex birreria di Brooklyn, Bre Prettis, 38 anni, hacker con la passione dei robot, ne ha realizzata una da circa mille dollari. Invece di 100 e passa mila. La nascita della mitica Maker-Bot è stato come il passaggio, negli anni Settanta, dai computer che occupavano una intera stanza e costavano come un carrarmato, al pc da tavolo e per tutti: l’inizio di una rivoluzione, appunto. Quello della fabbrica personale.
In questi tre anni con le stampanti 3D è stato stampato ogni cosa. C’è un architetto italiano, Enrico Dini, che stampa addirittura case o barriere coralline artificiali per emiri arabi. E c’è chi ha stampato copie di presidenti. È accaduto qualche giorno fa, a Washington: lo Smithsonian, che è il più grande museo del mondo, ha annunciato di aver stampato una replica della famosa statua di Thomas Jefferson a Monticello. Lo scopo? Replicare velocemente l’intera collezione del museo (137 milioni di pezzi) per farne delle mostre itineranti. Ma l’oggetto che ha fatto più scalpore è stato un violino, prodotto un anno fa da una società tedesca. The Economist gridò al miracolo mettendolo in copertina con il titolo “Stampami uno Stradivari”: oltre lo stupore per l’oggetto in sé, c’era l’intuizione di un ribaltamento di prospettiva: “La rivoluzione industriale inventò la produzione di massa e l’economia di scala; ora invece le stampanti 3D consentono a chiunque di produrre un singolo oggetto a costi bassissimi”. Cosa comporta questo per il futuro lo ha spiegato meglio di tutti lo scrittore canadese Cory Doctorow in un profetico romanzo del 2009, intitolato appunto Makers: “I giorni di società chiamate General Electric, General Mills, General Motors sono contati. Ci sono miliardi di opportunità imprenditoriali a disposizione delle persone creative e brillanti”.
Il futuro, secondo Doctorow, è quindi di società come Local Motors: nata a sud di Boston ha progettato e realizzato un auto da corsa con il contributo creativo di migliaia di appassionati. “La Rally Fighter è passata dal progetto al mercato in 18 mesi, il tempo che ai colossi dell’auto a Detroit serve per cambiare le decorazioni di una portiera”, ironizza in proposito Anderson. Questa rivoluzione industriale ha molto della cultura fai-da-te degli americani ma con un cuore, anzi un cervello italiano. Non si tratta più infatti soltanto di stampare o tagliare oggetti, ma di renderli intelligenti. E interconnessi. Per fargli fare delle cose. A questo pensa Arduino. Ha un nome da re ma non è una persona, è un microcomputer da 20 euro che ha conquistato il mondo (ce ne sono in giro 400mila ufficiali, con il profilo dell’Italia stampato sul circuito elettronico, più almeno altrettanti clonati in Cina). Lo ha creato nel 2005 un giovane ingegnere ribelle, Massimo Banzi, 42 anni, mentre faceva un corso di interaction design agli studenti della scuola di Ivrea. A cosa serve Arduino? Banalizzando, a far compiere un’azione ad un oggetto: per esempio a farti ricevere un sms quando la tua pianta ha bisogno di acqua. E a moltissime altre cose più importanti. Tutte quelle che puoi immaginare. “Arduino è una piattaforma per il futuro”, sintetizza Banzi che all’estero è una vera star, uno dei leader della rivoluzione in corso. Arduino è un progetto aperto, così come la MakerBot, i droni di Anderson, l’auto da corsa di Boston e come tutto quello che fanno i “maker”. Vuol dire che sono stati progettati collettivamente, usando la rete, e non hanno copyright.
Questo è un aspetto cruciale adesso che decine di venture capital si avvicinano a un settore dove intravedono possibilità di guadagno. Adafruit per esempio, è una startup nata in un loft del quartiere di Wall Street e diventata famosa con degli oggetti intelligenti realizzati riciclando le scatole metalliche per mentine Altoid: l’anno scorso ha venduto kit per 5 milioni di dollari. Ma come investire in un’azienda che non brevetta nulla e che anzi, si vanta di condividere tutto? Bre Pettis, che per MakerBot impega 82 persone e ha venduto kit per stampanti 3D fai-da-te per 10 milioni di dollari, avverte: “Chi non condivide i propri progetti, sbaglia”. Punto. È anche questa la cultura digitale a cui faceva riferimento Anderson nel suo saggio: la condivisione e la partecipazione applicata alla produzione di oggetti. E se vi sembra una cultura di nicchia, sappiate che sta dilagando. Alle Maker Faire cinque anni fa andavano poche migliaia di persone: ora sono centinaia di migliaia, gli sponsor sono Microsoft, Pepsi Cola e Ford, e da tre anni una edizione molto spettacolare si svolge in Africa. Mentre i FabLab, lanciati dal Mit per replicare laboratori dove produrre facilmente oggetti, sono arrivati in tutto il mondo, persino in Afghanistan e CostaRica. In Italia ne è appena aperto uno, a Torino, si chiama Officine Arduino ed è nato sulla scorta di un FabLab sperimentale varato in occasione degli eventi per celebrazioni dei 150 anni. Nessuno sapeva dire bene cosa fosse quel posto lì, ma c’era tutti i giorni la fila. Le persone facevano cose. I “maker” stanno arrivando.
(08.03.12 | R2 | pag. 49)

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